7 Settembre 2017

A spoonful of sugar

Storytelling nel food, food nello storytelling. Appunti

di Laura Bortoloni

Lo scorso 18 luglio sono intervenuta a Liquidi, un piccolo evento della serie Pillole di Futuro che Ida Studio co-organizza. Si parlava di food and beverage. Più mi occupo professionalmente di immagini di cose che si mangiano e si bevono, maggiore è lo straniamento che provo quando subisco il feed dei canali social dedicati.

Provo la stessa sensazione che mi provocano le opere di Thomas Demand: quelle immagini di cibo mi sembrano costruire un mondo distopico, un doppione del reale falso ed effimero quanto le fotografie dell’artista tedesco. Per dire qualcosa di vagamente sensato intorno al tema dello storytelling del food — ed evitare di disperdermi nel racconto di come si fa una bella foto, di quelle che ti fanno venire l’acquolina in bocca — , ho provato a fare l’esercizio contrario. Sono andata a cercare situazioni e racconti in cui apparissero cose da mangiare. Male che fosse andata, avremmo riascoltato delle belle storie. Dove cercarle? Ma nelle fiabe, che domande.

“È acerba”.

La storia è nota. Una volpe, non riuscendo a raggiungere l’uva, la etichetta come acerba e se ne va. La favola, che si vuole scritta da Esopo nel VI secolo avanti Cristo, propone una morale scomoda ma facile: chi non riesce a superare le difficoltà incolpa le circostanze.

Così, mentre cercavo informazioni intorno a questa storia, su internet mi sono imbattuta — assolutamente per caso — nella rilettura ottocentesca che ne ha dato Bret Harte. Harte, uno scrittore statunitense che si è occupato a lungo di storie di pionieri e testi umoristici, scrive The Improved Aesop for Intelligent Modern Children, e trasforma così l’originale.

“Ah,” said the fox, with a supercilious smile, “I’ve heard of this before. In the twelfth century an ordinary fox of average culture would have wasted his energy and strength in the vain attempt to reach yonder sour grapes. Thanks to my knowledge of vine culture, however, I at once observe that the great height and extent of the vine, the drain upon the sap through the increased number of tendrils and leaves must, of necessity, impoverish the grape, and render it unworthy the consideration of an intelligent animal. Not any for me thank you.” With these words he coughed slightly, and withdrew.

Una volpe quasi moderna, che sfrutta la sua competenza e la sua formazione culturale per argomentare meglio il suo disinteresse per l’uva. Una volpe competente, scientifica. Harte offre anche la morale: “This fable teaches us that an intelligent discretion and some botanical knowledge are of the greatest importance in grape culture.”

Questa versione della favola, dopo avermi strappato un primo sorrisetto sarcastico, mi ha fatto pensare a due comportamenti in cui mi sono imbattuta spesso. Il primo è la presunzione di competenza, male che fiorisce nell’epoca della post verità. Il secondo riguarda chi continua tuttora ad incolpare le circostanze. In ogni caso.

“Sono troppo piccolo per farlo, il budget è di certo troppo alto”. “Non è di sicuro un progetto alla mia portata, preferisco accontentarmi”. “Siamo piccoli, non ci serve”. “Siamo in Italia, magari se fossimo da un’altra parte…”. Frasi che, tipicamente, come consulente mi sono sentita ripetere da molte aziende piccole e medie che lavorano nel “mondo delle cose da mangiare e da bere”. Nel massimo rispetto di ogni budget, purtroppo queste sono frasi che non ci si può più permettere di pronunciare.

La celebre xilografia presente nella versione del 1484 di Wylliam Caxton delle fiabe di Esopo, conservata alla British Library, Londra, qui in verde e giallo.

Tutti noi frequentiamo la GDO, che ci ha abituati a standard professionali di rappresentazione e racconto per imagini del cibo. Tutti noi abbiamo un televisore, e tutti siamo stati spettatori di reality e talent nel mondo F&B. Abbiamo tutti visto un qualche famoso chef impiattare una sua qualche creazione, e tutti abbiamo gradito, subito o magari cercato una videoricetta in un canale social. La qualità visuale, fotografica e narrativa delle immagini di questi contesti è altissima e pervasiva. Anche se non siamo tecnici e non sapremmo dire perché quell’immagine è bella o brutta, abbiamo sviluppato un livello qualitativo dell’accettabile molto alto.

Un consulente che proponesse a una piccola azienda agricola un progetto di comunicazione fuori scala sarebbe un criminale. Ma anche l’atteggiamento di rifiuto, nella mia visione, è pericoloso perché blocca l’esplorazione di possibilità di lavoro in un mondo in cui siamo tutti ipercompetenti. Tutti siamo addetti ai lavori. La piccola azienda che si tira indietro ed esce dalla competizione, perché tanto è piccola, deve ricordarsi che sta scendendo dallo stesso ring dove giocano tutti gli altri, e tutti i consumatori sono arbitri di questa partita.

La sfida non è cercare di “fare le nozze con i fichi” — il piccolo pastificio artigianale non può e non deve fare in piccolo con pochi mezzi quello che fa l’attore industriale. La sfida è nella costruzione di immaginari nuovi, nel portare la maledetta parola storytelling a diventare qualcosa di più che non un video in cui un vecchio artigiano impasta con mani nodose le sue tagliatelle mentre nell’aria si alzano nuvole di farina bianca.

“Drink me”.

Questa storia è probabilmente ancora più facile da riconoscere. Lo sappiamo tutti, ad un certo punto Alice viene bloccata nel suo inseguimento del coniglio bianco perché trova una porta troppo piccola per passarci. Fortunatamente, vicino alla porta ci sono anche un tavolo e una boccetta di sciroppo su cui c’è scritto “Drink me”. Alice, che non è una sprovveduta, sa di non dover bere qualsiasi cosa trovi in giro; le hanno spiegato che deve verificare se sull’etichetta c’è scritto “poison”, veleno. Alice controlla: su questa bottiglia non c’è scritto “veleno”, così beve.

However, this bottle was not marked ‘poison,’ so Alice ventured to taste it, and finding it very nice, (it had, in fact, a sort of mixed flavour of cherry-tart, custard, pine-apple, roast turkey, toffee, and hot buttered toast,) she very soon finished it off.

L’Alice più nota, quella di Sir John Tenniel, illustratore della prima edizione delle Avventure. Qui in giallo e rosso. A Lewis Carroll non piacque mai.

È fin troppo facile sfruttare l’occasione narrativa offerta da Lewis Carroll per parlare di quello che sta accadendo oggi intorno alla tracciabilità e quello che succede intorno alla storia, alla vita del prodotto. Ci sono centinaia di esempi, dai prototipi di Ideo sulla realtà aumentata a tutto quello che si è visto due anni fa in Expo (su tutti: il Future Food District voluto da Coop).
“Realtà aumentata? Holo lens?” Chiaro. L’erba del vicino è sempre più verde, ma il punto non è (solo) la tecnologia. La frontiera segnala la direzione, ma noi abbiamo spazi ancora inesplorati nelle scelte che già compiamo (di packaging, di cura dei contenuti digitali) che potrebbero accogliere storie, racconti, cifre e informazioni.

“…ogni cosa, lassù, può essere mangiata e digerita, anche l’asfalto della strada. Anche le montagne? Anche quelle.”

Gianni Rodari pubblica le Favole al telefono per Einaudi nel 1962. Il ragionier Bianchi, di Varese, rappresentante farmaceutico in giro per l’Italia, ogni sera telefona alla figlia per darle la buonanotte con una favola. Una serie di racconti stralunati e fantasiosi, divertenti e fantastici, che hanno costruito l’immaginario della mia infanzia, in una edizione Einaudi con le illustrazioni originali, quelle di Bruno Munari.

Nelle Favole al telefono il cibo torna spesso. C’è un intero paese, ad esempio, abitato solo da uomini di burro. Vivono dentro dei frigoriferi, ed escono in macchine di ghiaccio. Oppure — ed è la favola che ho scelto — si riporta il menu del pianeta X213, nella favola intitolata Cucina Spaziale.

ANTIPASTI: Ghiaia di fiume in salsa di tappi — Crostini di carta asciugante — Affettato di carbone
MINESTRE: Rose in brodo — Garofani asciutti al sugo d’inchiostro — Gambe di tavolini al forno — Tagliatelle di marmo rosa al burro di lampadine tritate — Gnocchi di piombo
PIATTI PRONTI: Bistecca di cemento armato — Tristecca ai ferri — Tristezze alla griglia — Arrosto di mattoni con insalata di tegole — Do di petto di tacchino — Copertoni d’automobile bolliti con pistoni — Rubinetti fritti (caldi e freddi) — Tasti di macchina da scrivere (in versi e in prosa)

PIATTI DA FARSI: A piacere

Bruno Munari per Cucina Spaziale, Favole al telefono, Einaudi, 1962, qui in rosso e verde.

La cosa divertente del pianeta x213 è che è interamente commestibile. Si può mangiare qualsiasi cosa, dalle catene montuose alle biciclette. Un pretesto meraviglioso per riflettere sui trend legati alle confezioni biodegradabili e ai packaging edibili.
L’esercizio potrebbe continuare. Così Biancaneve potrebbe mangiare la metà della mela avvelenata — una mela, è noto, perfetta — e farci riflettere sulle aberrazioni dell’industria alimentare. Pollicino, seminando nel bosco le briciole di pane presto scomparse perché mangiate dagli animali, potrebbe ricordarci di come siano effimeri i segnali digitali che disperdiamo parlando del nostro prodotto. Fagioli magici, principesse e piselli.

Tornando un istante alle Favole al telefono e agli uomini di burro: Giovannino Perdigiorno, personaggio ricorrente nei racconti di Rodari, grande viaggiatore, si mette davanti al frigorifero — d’oro massiccio — del re degli uomini di burro (“Tutta panna di prima qualità. Latte di mucca svizzera”). Il dialogo tra i due è esilarante.

“…ma non esce mai di lì”.
“D’inverno, se fa abbastanza freddo, in un’automobile di ghiaccio”.
“E se per caso il sole sbuca d’improvviso dalle nuvole mentre la Vostra Maestà fa la sua passeggiatina?”.
“Non può, non è permesso. Lo farei mettere in prigione dai miei soldati”.
“Bum,” disse Giovannino. E se ne andò in un altro paese.

Ecco, credo che — per parlare con onestà di cose da mangiare e da bere, sia noi nel ruolo di comunicatori che gli imprenditori e in generale tutti gli attori — dovremmo evitare di comportarci come il re degli uomini di burro. Non pretendere di dominare cose che non controlliamo, ed essere aperti a riconoscere nuovi ruoli.

grazie a Francesco Lucchiari

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